sabato 25 agosto 2012

JunkBox - Tales of Mystery and Imagination


Per carità, Alan Parson lo conosco da tempo: sono ignorante ma non fino a questo punto. Se non lo conoscete (ancora) vi basti sapere che è è stato l'ingegnere del suono di Abbey Road (The Beatles, 1969) e The Dark Side of the Moon (Pink Floyd, 1973): nel primo caso aveva 21 anni, nel secondo 25. E penso che questo già vi basti per inquadrare il tipo.
Fa gavetta dietro la console guardando due dei più grandi gruppi della storia, nel 1976 con Eric Woolfson e un altro gilione di musicisti fa uscire questo disco e fonda i The Alan Parsons Project.

Odio le classificazioni in generi musicali. O meglio, divido la musica in due categorie: quella che mi piace e quella che fa cagare. E questo disco, dopo questa marchetta iniziale, di sicuro non è del secondo gruppo.
In ogni caso, questo è un disco prog rock con un pizzico di musica elettronica. E, dal basso della mia ignoranza, penso sia un mix equilibrato e riuscito.



L'album si rifà alle opere di Poe: A Dream Within a Dream, The Raven, The Tell-Tale Heart, The Cask of Amontillado, (The System of) Doctor Tarr and Professor Fether, The Fall of the House of Usher e To One in Paradise. Tutte le canzoni sono tratte da racconti della raccolta Mistero e Terrore, tranne le prime due che sono poesie.

La partenza è fortissima, i primi tre pezzi sono uno meglio dell'altro: la calma e profonda voce di Orson Wells in A Dream Within a Dream ipnotizza, i cenni di elettronica di The Raven sono un preludio al secondo disco del gruppo, I Robot, e The Tell-Tale Heart è, ecco, semplicemente perfetta.
Ascoltatela dopo aver letto il racconto.

Bellissima, no? La voce di Arthur Brown, poi, è inquietante di brutto.

The Cask of Amontillado e (The System of) Doctor Tarr and Professor Fether hanno sonorità molto da Pink Floyd e sono i due pezzi meno riusciti (strano che lo dica, a me i PF fanno semplicemente impazzire) del disco. Cioè, per carità, mica fanno schifo, è che secondo me sfigurano un po' rispetto alle altre.


Si arriva a The Fall of the House of Usher, la classica suite che non può mancare nei lavori prog. L'intro è un testo recitato come nella opening track. Voce profonda, suadente, cazzi e mazzi: l'avete capito che i racconti di Poe non sono ripieni di pony che cavalcano arcobaleni, vero? A quest'intro segue La chute de la maison Usher, l'incompiuta in musica del racconto fatta da Debussy, il cui finale ricorda l'intro dell'Also sprach Zarathustra di Strauss (6:33 in poi). Parte l'elettronica. Cazzo, sì, questo sì che è stile. L'elettronica cede il passo al rock in un incedere di paranoia e ossessione, di paura e terrore.

E poi viene ripreso lo stratagemma usato in Abbey Road tra I Want You (She's So Heavy) e Here Comes the Sun: la melodia tragica, arrivata a un punto dolorosamente insopportabile, lascia il passo a sonorità tranquille e pacate. No, 'spe: To One in Paradise però è una poesia dedicata a una donna scomparsa (potete leggerla qui). Alan Parsons non vuole necessariamente piacere al grande pubblico, vuole fare bella musica: gli serviva smorzare il tono martellante di The Fall of the House of Usher e, per farlo, non è riuscito a trovare uno scritto allegro/speranzoso di Poe, glien'è bastato uno malinconico.

Questo è un signor album che non innova un cazzo.
E' un 40 minuti di more of the same, prende a piene mani dai Pink Floyd e dai The Beatles (ok, più dai primi) ed è per questo che è bellissimo. E, niente, va ascoltato perché sì.

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